Segnali di Futuro sono la cifra del cambiamento in atto, nella produzione dei servizi pubblici, nelle forme del lavoro, nei modi di abitare, nella creazione di coesione sociale, nelle nostre strategie quotidiane di cura del benessere individuale e collettivo, nelle pratiche culturali e della mobilità.

I primi di Gennaio del 2015, un gruppo di lavoro di Avanzi. Sostenibilità per azioni, iniziava la definizione di un elaborato processo volto a codificare e decifrare quei tratti che accomunano e alimentano la nascita e la crescita di pratiche di innovazione sociale dal basso. Questo processo, ha subito una costante evoluzione che ha raggiunto il culmine proprio grazie alla tre giorni di mostra/dibattito tenutasi il 5, 6 e 7 di Marzo presso la Triennale di Milano. Gli incontri organizzati, gli interventi e i dibattiti che hanno animato l’evento, hanno permesso al nostro team non solo di validare e integrare alcune delle ipotesi in precedenza formulate ma al contempo hanno offerto diversi spunti di riflessione e nuovi interessanti elementi da analizzare.

Le 10 ipotesi “ostinate”, di seguito riportate nel dettaglio, continueranno ad accompagnarci e ad evolversi lungo il cammino intrapreso dal progetto Segnali di Futuro, un cammino ancora tutto da scoprire e che crediamo fermamente possa aiutare a diffondere un messaggio positivo grazie alla continua ricerca e testimonianza di realtà che sono state in grado di trovare soluzioni innovative e sostenibili a problemi emergenti. Sarà un percorso che permetterà inoltre di intessere ed estendere le maglie di una rete sempre più fitta intrecciata dagli attori, del mondo dell’innovazione sociale, sempre attenti ed in grado di rispondere a molti di quei fallimenti che purtroppo spesso caratterizzano la società moderna.

Di seguito le ipotesi di lavoro che hanno alimentato la ricognizione e la discussione dei Segnali di Futuro.

Ipotesi 1: Le pratiche innovative sono sempre più raramente codificabili in ambiti precisi. Housing non è solo housing, ma anche cura, lavoro, certe volte mobilità. Gli spazi di lavoro sono anche spazi ricreativi, spazi di creatività. L’agricoltura è anche accoglienza, è vendita, è turismo. E molti altri esempi.

Ipotesi 2: La crisi economica ha accelerato i processi innovativi. Giovani e meno giovani si inventano e reinventano (sono costretti a farlo), riformulano i problemi, trovano soluzioni innovative. Le piccole economie che nascono spesso sono di sussistenza e di autoimpiego, ma potrebbero evolvere verso forme più evolute.

Ipotesi 3: Lavoro e civismo non sono più separati da barriere. Il civismo diventa lavoro e, sempre più spesso, impresa. Sono cadute le barriere ideologiche sull’impresa, fare politica è anche imprendere, le forme associative in molti casi diventano punti di partenza per fare impresa (in forma cooperative o come srl). Il costo opportunità è più basso che in passato (le opportunità altre sono meno possibili, così come i redditi elevati).

Ipotesi 4: nel fare impresa la dimensione pubblica assume una rilevanza identaria e strategica. Le pratiche ci segnalano che l’obiettivo dell’imprendere non è solo profitto o il reddito e, al contrario, che va affermandosi un modello in cui la dimensione di utilità pubblica (produzione di beni pubblici, esternalità positive, etc…) sta diventando prevalente.

Ipotesi 5: il fare, nel senso più ampio del termine, è fare insieme, è fare condiviso. Le ragioni sono legate alla disponibilità di risorse, alla ricerca di legami, alla condivisione delle responsabilità, all’accesso a clienti. La condivisione è interpretata spesso come bene di club. L’interazione analogica e quella digitale di mischiano e diventano strumenti per abilitare collaborazioni e condivisioni.

Ipotesi 6: il fare è anche fare con meno. Riuso di risorse, anche spazi abbandonati, non è interesse di pochi o di nicchie, ma ha contaminato la cultura della produzione e del consumo. Nel fare con meno emergono forme embrionali di artigianato, vicine al fai da te, che comunque diffondono i saperi manuali e l’attenzione agli sprechi e al significato delle cose.

Ipotesi 7: molte innovazioni scaturiscono, anche indirettamente, dal conflitto e dalla messa in discussione del modello economico e sociale dominante. Dal conflitto nasce l’auto-organizzazione, la condivisione, il fare con meno che leggiamo in molte pratiche, apparentemente lontane dai luoghi e dagli attori del conflitto. E alcune tra le innovazioni più interessanti sono un sabotaggio delle prassi consolidate, infrazione di regole scritte e non scritte.

Ipotesi 8: gli attori imparano e innovano facendo e interagendo. L’interazione con clienti, utenti, partner è centrale nelle pratiche, in quanto è fattore abilitante, di coesione interna, di conoscenza del mercato, di sopravvivenza e condizione per la replicabilità e la scalabilità.

Ipotesi 9: gli attori sono più imprenditori che lavoratori. Indipendentemente dalle infrastrutture giuridiche e dalla definizione dei contratti (anche nel caso del volontariato), i protagonisti delle pratiche imprendono, assumono dei rischi, rinunciano momentaneamente al reddito, validano continuamente prodotti e servizi e li adattano ai bisogni.

Ipotesi 10: le forme giuridiche adottate sono le più varie, e cambiano nel tempo. Gruppi informali, associazioni, imprese cooperative e imprese a responsabilità limitata, consorzi e reti d’impresa sono i vestiti formali delle pratiche. Nonostante ci sia una fluidità tra le diverse forme, nei racconti dei protagonisti permane una distanza significativa tra attività svolte volontariamente e attività remunerate.